Le Breton: «Camminare rimette in ordine il caos interiore»
Per l'antropologo francese che camminando trova l'ispirazione dei suoi scritti, la marcia un gesto che restituisce la magia dell'esistere
Simone Paliaga
Secondo David Le Breton,
la marcia è l’atto di resistenza che privilegia la lentezza, la
conversazione, il silenzio, la curiosità, l’amicizia, la gratuità, la
generosità, la contemplazione. E, al gusto del camminare, l’antropologo dell’università di Strasburgo ha dedicato due libri, “Il mondo a piedi. Elogio della marcia” (Feltrinelli) e l’altro, da poco pubblicato in Francia, “Marcher. Eloge des chemins et de la lenteur” (Metaillé).
Wisesociety.it lo ha incontrato scoprendo che la sua
difesa del camminare non è un esercizio retorico. Lo sforzo che guida i
suoi pensieri lo porta a elaborare una concezione dell’uomo ben diversa da quella dominante nel mondo utilitarista di questi primi scorci del XXI secolo.
E questo cosa significa? Significa che battere i sentieri porta a lasciarsi alle spalle un mondo di competizione, di sfiducia, di disimpegno, di velocità, di comunicazione a vantaggio di un mondo di amicizia, di parole e di solidarietà. Strade, autostrade, ferrovie sono però i percorsi dominanti della nostra epoca. Il marciatore oggi sembra ostacolato e costretto a fughe esotiche. Con difficoltà oramai si raggiungono i luoghi adatti alla marcia. Se ne avverte la fragilità. Essi sono quasi soffocati dall’urbanizzazione dei nostri territori e i loro giorni sono contati.
Ogni paesaggio è oramai minacciato dalle società contemporanee che lo considerano solo uno spazio da conquistare e da far fruttare. Nelle sue vicinanze ci sono sempre grandi città saturate da una sfilza di grandi magazzini tutti identici a se stessi e identificati dalle stesse marche commerciali. Ma non è una cosa di oggi.
Professore, Nietzsche afferma di aver cominciato a pensare seduto prima di riuscire a pensare camminando. Lei si sente come lui?
Sì, c’è sintonia tra noi due. Spesso trovo delle idee o delle soluzioni camminando o correndo. La marcia è meravigliosa a questo proposito. Il pensiero fluttuante che nasce dal movimento dei passi è emancipato dalle costrizioni del ragionamento. Il pensiero quando si cammina va e viene, incastonato com’è nella dimensione della sensorialità, legato all’istante che passa.
Intende dire che è volatile, che cambia a ogni piè sospinto?
Voglio dire che la qualità del pensiero durante una marcia dipende anche dalle circostanze esteriori.
Talvolta il calore, la fatica, il ritmo ci sprofondano in una sorta di
trans e ci inducono a estinguere il nostro sé a vantaggio di una sensazione del mondo più fisica,
quasi muscolare, direi. Seguendo l’intuito, ciascuno cerca il suo ritmo
per riflettere o dimenticarsi almeno per un momento di sé stesso. La lentezza è più propizia alla riflessione o alla conversazione.
A lei la marcia che cosa le trasmette?
Per quanto mi riguarda il camminare mi dà la voglia di scrivere.
Lo testimoniano i due libri che ho dedicato a questa passione. Ma non
si tratta solo di questo. La marcia mi dona soprattutto il desiderio di
condivisione permettendomi di superare l’isolamento in cui rischio di rinchiudermi.
E’ questo dunque il motivo per cui l’uomo sceglie di camminare?
La marcia è una fuga per sottrarsi alla routine del
pensiero e dell’esistenza, per allontanarsi dalle pesantezze del lavoro
o dalle preoccupazioni personali. Per una periodo più o meno lungo si
rivoluziona la propria esistenza e il proprio rapporto con gli altri e
con il mondo. Non si è più identificati col proprio stato civile,
con la condizione sociale di ogni giorno, con le responsabilità nei
confronti di chi ci è vicino. Quando si cammina si è disponibili
all’incontro con gli altri e ci si apre alle scoperte condotte sul filo dell’itineranza.
Può essere più preciso?
Gli uomini e le donne si incrociano lungo i sentieri e all’improvviso si ritrovano in una situazione di riconoscimento essenziale
che di rado avviene nella quotidianità: ci si saluta, ci si scambia un
sorriso o un’osservazione fugace. Magari si chiedono informazioni sul
sentiero o sulla meta da raggiungere, si risponde alle informazioni
richieste dai marciatori che si sono persi. La marcia è un universo della reciprocità.
L’albergo, il caffè, la panchina su cui poi ci si ritrova prolungano
talvolta l’incontro assaporato di sfuggita qualche tempo prima.E questo cosa significa? Significa che battere i sentieri porta a lasciarsi alle spalle un mondo di competizione, di sfiducia, di disimpegno, di velocità, di comunicazione a vantaggio di un mondo di amicizia, di parole e di solidarietà. Strade, autostrade, ferrovie sono però i percorsi dominanti della nostra epoca. Il marciatore oggi sembra ostacolato e costretto a fughe esotiche. Con difficoltà oramai si raggiungono i luoghi adatti alla marcia. Se ne avverte la fragilità. Essi sono quasi soffocati dall’urbanizzazione dei nostri territori e i loro giorni sono contati.
Ogni paesaggio è oramai minacciato dalle società contemporanee che lo considerano solo uno spazio da conquistare e da far fruttare. Nelle sue vicinanze ci sono sempre grandi città saturate da una sfilza di grandi magazzini tutti identici a se stessi e identificati dalle stesse marche commerciali. Ma non è una cosa di oggi.
Era così anche nei secoli precedenti?
Tra il 1870 e il 1871 Cézanne passa gli anni della
guerra franco-prussiana a dipingere a l’Estaque, allora un villaggio di
pescatori vicino a Marsiglia oggi quasi completamente integrato nelle
periferie industriali della città. Già allora il pittore avvertiva un senso d’urgenza,
sentiva che la bellezza di quei luoghi era sul punto di sgretolarsi a
causa dell’espansione urbana. Trent’anni più tardi, quando farà ritorno
in quelle terre, non mancherà di ammonire: “Va male, bisogna affrettarsi
se ancora si vuole vedere qualche cosa. Ormai tutto scompare!”.
Ci potrebbe quindi essere una relazione tra la marcia e il reincanto del mondo?
Beh, di certo la marcia sollecita il senso del sacro, restituisce la magia all’esistere.
I giovani incoraggiati a marciare scoprono la meraviglia della notte o
del tramonto quando le luce dei negozi o l’illuminazione urbana
scompaiono; vedono stelle che non avevano mai visto, sentono il silenzio
che li spaventa ma anche li travolge. Imparano che si può tacere
insieme senza che la comunicazione sia interrotta. La meraviglia di
sentire l’odore dei pini riscaldati dal sole, di vedere un ruscello
colare attraverso i campi o una cava di ghiaia abbandonata in mezzo alla
foresta.
I luoghi possiedono dunque un dono di guarigione e la marcia è una terapia contro il mondo di oggi?
Marciare significa riprendere corpo, avere i piedi per terra nel
senso fisico e morale del termine. La marcia è spesso un percorso
importante per ricomporre i frammenti dispersi di se stessi. Sfronda i
pensieri grevi che impediscono di vivere per il loro peso eccessivo.
Insomma la marcia ci salva?
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